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Published on Luglio 27th, 2005 | by Redazione MG News

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Le micro-imprese

Costituiscono il 94% delle imprese italiane, offrono lavoro a poco meno della metà di tutti gli occupati del Paese (47,8%), muovono un fatturato del 30,5% e registrano un valore aggiunto[…] Costituiscono il 94% delle imprese italiane, offrono lavoro a poco meno della metà di tutti gli occupati del Paese (47,8%), muovono un fatturato del 30,5% e registrano un valore aggiunto per addetto del 32,5%. In Europa la situazione è pressoché analoga, sia pure con qualche variazione, ma con un dato comune: sono da anni l’unica fonte di assorbimento occupazionale, al punto che l’Osservatorio sulle PMI europee ha riconosciuto: «Le vere giganti dell’economia europea sono le imprese con meno di 10 addetti».
Le «microimprese» sono, dunque, una realtà riconosciuta, ma ancora poco studiata. Uno dei primi contributi in questo senso è il lavoro di Domenico Barricelli e Giuseppe Russo («Think micro first – Le microimprese di fronte alla sifda del terzo millennio», Franco Angeli, presentazione di Tiziano Treu), due ricercatori esperti di politiche ed interventi sulle PMI, che hanno messo al microscopio il fenomeno, definendone origini, dimensioni, pregi e difetti, fino ad arrivare a suggerire politiche per lo sviluppo di un segmento produttivo sempre più centrale nel processo economico.

Le origini del fenomeno: la crisi organizzativa della grande impresa.
È con i primi anni Ottanta che la piccola impresa (fino a 50 addetti) diventa protagonista riconosciuta dell’economia italiana ed europea, di fronte alla crisi organizzativa della grande industria, che si burocratizza, si concentra sul core business, ma disperde gli investimenti in attività diversificate, riduce le economie di scala e si vede aggredita da una nuova realtà: la nascita di nuove attività (legate ad esempio alle software houses) di piccole dimensioni, talvolta ad elevato valore aggiunto. Rapidamente, la piccola impresa diventa nelle politiche comunitarie da soggetto debole da salvaguardare a soggetto centrale del processo di sviluppo. Nel 2000 l’Unione criticherà l’abbandono degli studi intrapresi sul settore affermando: «Le piccole imprese costituiscono il motore dell’innovazione e dell’occupazione in Europa».

La politica europea: le ragioni di un modello originale.
L’attenzione della Commissione di Bruxelles alle PMI sono anche dovute all’originalità del modello europeo, sostenuto negli anni Ottanta da François Mitterrand («Le PMI sono un freno alle multinazionali») e da Margaret Thatcher («Sono un segno della vitalità del neocapitalismo»), contro la centralità riconosciuta alla grande industria negli Stati Uniti e in Giappone. Sul finire degli anni Novanta l’attenzione si sposta sulla microimpresa. E l’Unione proseguendo lungo questa strada, ha riconosciuto alle aziende fino a 10 dipendenti il ruolo di categoria autonoma, ma le misure in suo favore sono ancora timide, limitandosi a garanzie per microprestiti fino a 25 mila euro e ad una proposta di Direttiva contro i ritardi nei pagamenti delle pubbliche amministrazioni. Tuttavia, Il Comitato Economico e Sociale dell’Unione ha individuato le linee d’azione da adattare rapidamente alla microimpresa concentrandosi, tra le varie indicazioni, sulla necessità di facilitare l’accesso al credito e di avviare programmi di educazione e formazione.

Le dimensioni del fenomeno: il 93% di microimprese in Europa.
I dati di base della ricerca sono quelli dell’Osservatorio europeo sulle PMI, da cui non è semplice ricavare il dato sulla microimpresa. Riguardo alla quantità è indiscutibile la preponderanza numerica dell’impresa con meno di 9 dipendenti: nell’Europa dei 18, le PMI sono 20 milioni e costituiscono il 99% del totale delle aziende, ma di questo 99%, il 93% è costituito da microimprese (in Italia il 94,4%) e solo il 6% da piccole e medie. Altrettanto indiscutibile la rilevanza del contributo occupazionale delle microimprese, anche se in percentuali diverse: in testa sono Italia (47,8% dell’occupazione totale), Spagna e Portogallo (40,6%), ma si scende subito al 28% della Svezia, al 24,5% in Francia, al 21,7% nel Regno Unito, al 19,1% in Germania.

I pro e i contro: la figura del titolare.
Lo studio di Barricelli e Russo analizza anche la struttura della microimpresa, individuando subito i suoi segni caratteristici: 1. la sua semplicità «monocellulare», che si differenzia solo al momento dello sviluppo tra quelle che il “fisico-economista” del MIT, David Birch, ha definito le imprese Topo (quelle destinate a rimanere microimprese) e le imprese Gazzella (quelle destinate a crescere); 2. la figura assolutamente prevalente del titolare nel quale si identificato i pregi e i difetti di questo tipo di strutture. La soggettività dell’imprenditore comporta il pregio principale della microimpresa: la sua flessibilità ossia la sua capacità di adattamento sia alle condizioni economiche generali e settoriali che alle specificità dei singoli mercati. Ma alla stessa soggettività dell’imprenditore vanno ascritti gli ostacoli che la microimpresa incontra sulla strada dello sviluppo: la carenza di competenze gestionali (spesso si tratta di un soggetto proveniente dall’area tecnica che decide di mettersi in proprio), la difficoltà di reperire risorse umane, la scarsa disponibilità di risorse finanziarie (non ci sono riserve, i capitali sono individuali, la regola è l’autofinanziamento).

Le politiche per la centralità della microimpresa: finanza e formazione.
La parte più cospicua dello studio riguarda proprio la risposta da dare a tali difficoltà, partendo dalla convinzione condivisa della centralità della microimpresa nel processo di sviluppo dell’Italia e dell’Europa. Corredata da un quadro delle politiche in corso, la ricerca individua una serie di strumenti finanziari – dall’ampliamento del leasing a interventi sull’accesso al credito – per facilitare la nascita e accompagnare la crescita delle microimprese, favorendo lo sviluppo delle «aziende gazzella» anche con l’orientarle verso comparti e settori a più alto valore aggiunto. Ma è anche sulla formazione che il lavoro dei due ricercatori punta i suoi riflettori: se al centro della microimpresa c’è il titolare e da lui discendono direttamente pregi e difetti dell’azienda, è su questa figura che bisogna lavorare. Come? Attraverso politiche di lifelong learning, la formazione continua inserita nel contesto economico del territorio, che favorisca anche l’inserimento della singola impresa nel sistema produttivo regionale, ma soprattutto superi – nello spazio e nel tempo (localismo e durata della formazione) – le forme di apprendimento e di management tipiche dell’impresa pre-fordista e fordista, per passare ad un nuovo tipo di apprendimento post-fordista: quando l’azienda si identifica nelle sue componenti umane principali (siano essi titolari, coadiuvanti familiari e collaboratori), lo sviluppo dell’azienda coincide con la loro crescita.


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