Promozione made in italy no image

Published on Marzo 18th, 2005 | by Redazione MG News

0

Il riposizionamento competitivo del made in italy sui mercati internazionali

Spesso il termine delocalizzazione non descrive compiutamente il processo di riposizionamento competitivo che sta interessando, lungo tuttta la catena del valore, le aziende del nord est proiettate sui mercati internazionali. L’uso di una terminologia più corretta è il primo passo per “cambiare prospettiva” nella valutazione di questi fenomeni. Diamogli un altro nome, perché la “delocalizzazione” non descrive più correttamente i processi in corso ed evoca un’idea di depauperamento che non corrisponde alla realtà. Chiamiamola “ricollocazione” e “internazionalizzazione” delle imprese. Non è un’operazione di maquillage per nascondere gli eventuali risvolti negativi. La ricollocazione indica la strategia di un nuovo posizionamento nella divisione dei mercati internazionali. Indica il presidiare nuove frontiere e, contemporaneamente, trasformare e arricchire il territorio di origine. Diverse ricerche ormai evidenziano come le imprese che cercano di internazionalizzarsi, soprattutto nei distretti, lo facciano coinvolgendo i fornitori locali, trasformando – elevandole – le figure professionali da loro impiegate. La “delocalizzazione” è un fenomeno in larga misura superato dai fatti, intendendo con tale categoria il mero spostamento all’estero di parti della produzione di minore valore e a costo più elevato. Dove la strategia dell’impresa è volta esclusivamente al contenimento dei costi. Il termine e l’idea della delocalizzazione alimentano un alone negativo nell’immaginario collettivo, cui seguono le immediate reazioni presso i lavoratori, l’opinione pubblica, i politici e, in qualche caso, anche fra gli stessi imprenditori: perdita di posti di lavoro, impoverimento del tessuto economico a causa dell’interruzione dei rapporti con i subfornitori locali, riprovazione morale nei confronti dell’impresa perché dopo avere sfruttato le risorse locali, va ad arricchirsi altrove, dimostrando un basso senso di responsabilità e comunitario. Nessuno nega che vi siano stati simili episodi e che, in casi limitati, ciò avvenga ancora, producendo conseguenze negative soprattutto sui lavoratori. Ma sono fenomeni marginali quantitativamente. Anche perché solo il 5% dei 5 milioni di imprese italiane supera i 10 dipendenti (250.000 circa). Fra queste, poco meno della metà (47%, secondo la ricerca del 2004 “L’Italia delle imprese”, Fondazione Nord Est – Il Sole 24 Ore) ha rapporti con mercati esteri: circa 117.500. Di più, circa il 5% (meno di 6.000) fra quest’ultime ha produzioni all’estero avendo aperto nuovi stabilimenti o utilizzando lì strutture pre-esistenti. E la maggior parte di queste si muove in un’ottica di “internazionalizzazione” e non di “delocalizzazione”. Dunque, il rischio è, parafrasando un antico adagio indiano, di prestare un’esclusiva attenzione all’albero che cade, ma di non dedicare alcuna attenzione alla tanta erba che cresce. Continuare ad assumere la categoria della delocalizzazione non risponde alla complessità della realtà e presta il fianco a posizioni massimaliste, controproducenti – alla fine – per tutti, lavoratori compresi. C’è un dato di fatto incontrovertibile: i processi di globalizzazione dei mercati sono strutturali, non possono essere evitati. Ma la storia industriale del nostro paese (si veda la vicenda del settore tessile che negli anni ’70 subiva già la concorrenza di paesi emergenti e allora le resistenze al decentramento furono fortissime) insegna che gli atteggiamenti difensivi e barricadieri non aiutano ad affrontare i nodi problematici, che prima o poi giungono inevitabilmente al pettine. Con ricadute ancor più negative. Meglio, allora, affrontarli subito e in modo strategico, consapevoli che molte sfide sono presenti. E per queste sfide è necessario approntare gli strumenti adeguati sia per i lavoratori (formazione continua, riqualificazione professionale, favorire la mobilità e il reimpiego con agevolazioni, ecc.), che per le imprese dei settori più maturi (incentivi all’innovazione, all’aggregazione). Ma sono presenti anche molte opportunità, di cui già oggi si intravedono i segni: trasformazione del sistema produttivo verso lavorazioni a più elevato valore aggiunto e a innovazione tecnologica; cambiamento delle figure professionali all’interno delle imprese; nuovo posizionamento strategico delle imprese all’interno della nuova divisione dei mercati internazionali. Oltre a farlo già da sé, le imprese hanno bisogno che questi processi siano inseriti in modo adeguato nei provvedimenti sulla competitività del governo. Ma è necessario, nel contempo, dare un nome nuovo alle trasformazioni in corso, al fine di alimentare un clima culturale più attento ai fenomeni della ricollocazione e dell’internazionalizzazione delle imprese. tratto da “Il sole 24 ore”


About the Author



Torna su ↑
  • Newsletter

    Per essere aggiornato via email sui nuovi contributi pubblicati su MercatoGlobale NEWS e sulle iniziative che essa promuove per i suoi iscritti, ti invitiamo a registrarti nell'apposito form sotto inserendo il tuo indirizzo Email.

     Esprimo il consenso al trattamento dei miei dati come indicato nell'informativa privacy


  • Pubblica i tuoi comunicari stampa

  • Ultimi comunicati