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Published on Settembre 26th, 2005 | by Redazione MG News

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AAA ricercatori veneti offresi

Sono circa 2.200 i ricercatori che lavorano nelle università venete; di questi ormai il 50% è rappresentato da studiosi senza un contratto stabile, dato il blocco delle assunzioni negli atenei[…] Sono circa 2.200 i ricercatori che lavorano nelle università venete; di questi ormai il 50% è rappresentato da studiosi senza un contratto stabile, dato il blocco delle assunzioni negli atenei imposto ormai da qualche anno. Parallelamente è notevolmente cresciuto negli ultimi anni il numero dei dottori in ricerca sfornati dagli atenei veneti; dai 234 del 2001 ai 567 del 2005. Poiché nello stesso arco temporale il numero di assegni e borse destinati dall’Università ai dottori di ricerca per proseguire il lavoro è rimasto sostanzialmente stabile, si amplia il numero di aspiranti ricercatori che si deve trovare un’altra occupazione o che va a fare esperienza di ricerca all’estero.
Infatti la forbice tra dottorati e assegni/borse passa dal 15% del 2001 al 68% del 2005 – vedi tabella. Questo significa che negli ultimi cinque anni ben 813 dottori in ricerca non sono riusciti a proseguire la loro carriera all’interno dell’Università.
Assistiamo quindi ad un primo paradosso: a fronte della carenza più volte lamentata dalle aziende di profili professionali di alto livello, soprattutto nel campo tecnico-scientifico, profili più che mai necessari in questo momento in cui la ricerca e l’innovazione diventano strategici per garantire la competitività delle imprese, ci sono dottori in ricerca, cioè persone che oltre la laurea specialistica, hanno effettuato un percorso formativo ulteriore di due anni in Università, che fanno difficoltà a trovare una collocazione non solo in ambito accademico ma, spesso, anche all’interno delle aziende.
Questo dato viene confermato da una ricerca condotta dall’Università di Padova che ha monitorato gli esiti occupazionali dei dottori in ricerca usciti nel corso di 3 anni consecutivi: solo il 22% ha trovato collocazione in azienda.
Questo dato è ancora più allarmante se si pensa che una parte ormai consistente dei dottorati di ricerca viene finanziata attraverso fondi privati (cioè aziende, enti e fondazioni private); succede che le aziende finanziano i dottorati di ricerca che costano poco e consentono di accedere in modo gratuito a tutte le strumentazioni delle Università. Quando però, finito il percorso formativo, si tratta di fare un contratto stabile ad una risorsa umana che, vista anche la sua esperienza specifica, sarebbe in grado di fornire un alto valore aggiunto all’azienda, emergono serie difficoltà.

A questo punto i dottori in ricerca hanno poche alternative:
· I più “fortunati” riescono a restare in università come ricercatori precari con un contratto a tempo determinato (che normalmente non supera i 2-3 anni) ed un compenso che oscilla tra gli 800 e i 1200 euro mensili;
· I più coraggiosi si procurano l’opportunità di svolgere il lavoro di ricercatore all’estero; spesso appena dopo la laurea iniziano un percorso di dottorato in ricerca all’estero che, nella stragrande maggioranza dei casi, si tramuta dopo i due anni in un contratto di ricercatore stabile e ben retribuito (2-3 volte superiore il compenso percepito in Italia);
· I meno fortunati debbono adattarsi a trovarsi un’altra occupazione – per lo più precaria – come insegnanti supplenti nelle scuole oppure come collaboratori esterni di enti e strutture pubbliche.

Analizzando nel dettaglio la situazione di coloro che riescono in qualche modo a continuare il lavoro di ricercatori all’interno dell’Università si osservano alcuni fenomeni indicativi si una situazione di sempre maggior sofferenza:
· In alcune Università, in special modo Venezia ma in parte anche Padova, la struttura del personale docente in ruolo è tale – età media e retribuzioni elevata – che è stato splafonato il tetto ministeriale del 90% entro il quale devono stare le spese del personale sul totale delle spese di gestione. In questo modo non esiste spazio per l’assunzione in ruolo di nuovi ricercatori.
· Un decreto del MIUR (il Ministero dell’Università e della Ricerca) ha da qualche anno aperto le porte del dottorato in ricerca anche a fonti di finanziamento esterne (tipicamente da aziende) oppure a dottorati senza borsa, ovvero che lavorano senza compenso; questo ha generato il meccanismo che ha portato alla moltiplicazione dei dottori in ricerca negli ultimi anni, dottori che non riescono poi a trovare collocazione (come più sopra descritto)
· I ricercatori che riescono a procurarsi un contratto (precario) e rimanere all’interno dell’Università non hanno alcuna garanzia di rinnovo in quanto le Università finanziano ogni anno un certo numero di nuovi progetti di ricerca ma non mettono in budget le risorse per rinnovare i contratti in essere
· Una parte di ricercatori, date le esigue risorse degli atenei, riescono a finanziarsi con fondi a valere su progetti di ricerca a carattere nazionale o comunitario (che riguardano di solito materie tecnico-scientifiche). Ma il meccanismo per il quale un ricercatore riesce a portare avanti il suo progetto ed un altro rimane invece a piedi non mette i ricercatori su un piano di parità. Dipende infatti dalle capacità professionali e dalle abilità relazionali dei singoli docenti nell’accedere a questa o quella fonte di finanziamento e non dalla qualità del progetto di ricerca né tantomeno dalle capacità del singolo ricercatore.
· Vista l’esiguità di borse ed assegni di ricerca, alcuni giovani pur di non lavorare all’interno dell’Università accettano forme di collaborazione ancora più precarie come co.co.co o lavori a progetto. La quantificazione di questo fenomeno è piuttosto difficile anche perché questi ricercatori figurano ufficialmente come tecnici di laboratorio o assistenti tecnico-amministrativi e quindi non appaiono in nessuna statistica. E’ percezione comune da parte di tutti i ricercatori che si tratta di un trend crescente.
· Il problema di trovare una collocazione – se pur precaria – come ricercatori all’interno degli atenei diventa addirittura drammatico per alcune materie. Mentre per le facoltà scientifiche i ricercatori possono finanziarsi con fondi a valere su progetti di ricerca a carattere nazionale o comunitario, le facoltà umanistiche non hanno questa possibilità e quindi per queste materie le opportunità di ricerca sono ridotte al lumicino.

Per quanto riguarda invece il fenomeno della “fuga dei cervelli all’estero”, la quantificazione è lasciata a delle stime empiriche che però danno abbastanza l’idea della questione.

· Attraverso l’analisi di coloro che – in possesso di una laurea – chiedono di portare la loro residenza in uno stato estero – si stima che siano circa 300 ogni anni i ricercatori veneti (dottori in ricerca oppure semplici laureati) che hanno trovato un’occupazione stabile all’estero.
· Secondo una ricerca svolta dall’ ateneo patavino, tra il 2001 ed il 2003, sono usciti all’estero con un contratto una cifra oscillante tra i 120 ed i 150 aspiranti ricercatori. L’indagine riguarda i soli dottori in ricerca; quindi non si tiene conto di coloro che hanno trovato una sistemazione all’estero appena dopo la laurea.
· E’ infatti il crescita il fenomeno che viene definito “early escape”: ovvero il movimento verso l’estero di neo-laureati che cercano un contratto di ricerca, evitando il dottorato in Italia. Oggi un laureando o un neo-laureato ha molte opportunità di fare esperienza di studio e ricerca all’estero attraverso i programmi comunitari come l’Erasmus o il Leonardo. Il problema è che, una volta usciti per effettuare il dottorato all’estero, i ricercatori trovano una collocazione stabile e non tornano più in Italia.
· Si è constata l’assoluta inefficacia della cd legge per il rientro dei cervelli dall’estero. Operativa dal 2001 la normativa (in realtà è un decreto ministeriale) aveva lo scopo di facilitare il rientro dall’estero di ricercatori in Università italiane. La farraginosità dei meccanismi, i limitati budget messi a disposizione dei ricercatori rientranti e le prospettive (nulle) di rinnovo di contratto dopo i primi 3 anni, hanno decretato il flop del provvedimento: in 4 anni sono rientrati solo 378 ricercatori in tutta Italia; nel Veneto 17!
· Per quanto riguarda la destinazione dei ricercatori veneti che emigrano, la ricerca effettuata dall’Università di Padova fa emergere, oltre al ruolo storicamente rilevante degli USA (42% del totale), il peso crescente dei paesi UE che ormai arrivano attorno al 45% del totale, con una particolare presenza di UK e Germania.

Per approfondimenti: tutti gli allegati (interviste, testimonianze, dati, ecc) del dossier sui ricercatori sono scaricabili gratuitamente dalla Community di Connecting-managers previa registrazione

Contatti:

Rappresentanti dei ricercatori nel Veneto:
– Cinzia Bettiol (Università di VENEZIA) – email: bettiol@unive.it
– Michela Drusian (Università di PADOVA) – email: michela.drusian@unipd.it


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