Tecnologie per l'impresa no image

Published on Ottobre 25th, 2006 | by Redazione MG News

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La creatività batte l’innovazione ?

Le riflessioni del prof. Muffatto sul perchè l’Italia eccelle nella creatività ma zoppica nell’innovazione tecnologica. Qualche mese fa un articolo del Sole 24 ore Nord Est titolava “La creatività batte l’innovazione”. Il titolo è sicuramente ad effetto ma lascia intravedere un atteggiamento culturale sottostante da non sottovalutare.
L’espressione la creatività batte l’innovazione si può leggere in due modi. Il primo: la creatività batte l’innovazione perché di innovazione ce n’è poca. L’Italia soffre su tutti gli indicatori, sia sui drivers, o fattori abilitanti dell’innovazione, che sui risultati dei processi innovativi. Secondo la Commissione Europea l’Italia è indietro di 10 anni rispetto solo alla media europea per non dire rispetto alle lepri dell’innovazione in Europa ovvero Svezia, Svizzera, Finlandia, Danimarca o rispetto a Giappone e Stati Uniti dove il divario è importante anche per l’insieme dei paesi europei.
Ma l’espressione la creatività batte l’innovazione potrebbe essere letta anche in chiave prospettica. Poiché l’innovazione è difficile da ottenere mentre la creatività ci è più congeniale lo sviluppo della creatività è la strada da battere. In buona sostanza il pensiero è del tipo “dobbiamo concentrarci su quello che sappiamo fare” magari con un po’ più di creatività. Questo modo di vedere può nascondere dei pericoli.
Una strategia di innovazione basata solo sulla creatività e sul design è difficilmente sostenibile. Anche la creatività si impara e soprattutto viene affrontata in modo sempre più strutturato come un servizio che enti specializzati possono fornire. Di creatività c’è, e ci sarà sempre, bisogno ma non bisogna essere troppo ottimisti sul fatto che solo da noi possa emergere e si possa valorizzare. Anche la creatività è contendibile.
Inoltre lo spettro di quello che si può fare con la creatività è ampio. La creatività può portare semplicemente un rinnovamento di prodotti ma anche a risultati molto più rilevanti come la creazione di nuove linee di prodotto e la nascita di nuove imprese.
Il problema di fondo sta nel modello di specializzazione italiano che è basato su settori a bassa intensità di capitale umano. La creatività dovrebbe essere accompagnata da maggiori investimenti in capitale umano e in ricerca e sviluppo. Si arriva quindi anche ad un accezione più ampia e più significativa come quella di Creative Class (nella interpretazione che ne ha dato Richard Florida) a cui partecipano però molte figure professionali della scienza, della tecnologia, dell’arte etc. In questa accezione creatività e innovazione non sono su due piani diversi ma si integrano.
Un secondo spunto sul tema viene da Symbola, Fondazione per le qualità italiane, che “vuole consolidare e diffondere il modello di sviluppo della soft economy”.
Si legge sul sito della Fondazione “Il futuro dell’economia italiana si gioca su due fronti: da una parte l’innovazione, la ricerca e le nuove tecnologie; dall’altra il recupero della nostra identità fatta di paesaggi unici, prodotti tipici, saperi tradizionali, creatività e patrimonio storico-culturale.”
Anche in questo caso i due termini di creatività e innovazione sono separati. E tuttavia i punti di incontro potrebbero esserci. Il bel paese è proprio bello e la qualità della vita non pare che manchi perché allora non riesce ad attrarre oltre ai turisti anche i talenti per la ricerca e l’innovazione? L’innovazione, la ricerca e le nuove tecnologie si basano anche sulla capacità del bel paese di essere attrattivo per ricercatori, investimenti etc. Invece questa fusione tra territorio e capacitò di attrazione di risorse umane di eccellenza non avviene. Significa che entrano in gioco altri aspetti ovvero le “mancate qualità italiane” per dirla appunto in modo.. soft.
Si potrebbe aggiungere che bisognerebbe mettere di più in pratica il cosiddetto “Effetto Wimbledon”. A Wimbledon vanno a giocare i migliori tennisti del mondo e non solo inglesi. Il prestigio del torneo sta in questo e la capacità di Wimbledon di attrarre i migliori sta nel prestigio e nella serietà della gestione del torneo. L’“effetto Wimbledon” è stato oggetto di un editoriale sul Corriere della Sera (27 febbraio 2005) di Tommaso Padoa-Schioppa. Il riferimento dell’editoriale era alla competizione internazionale in campo bancario ma un estensione ad altri campi e settori non appare priva di significati.
Per i non amanti del tennis il riferimento potrebbe essere quello del calcio e del nostro campionato nazionale. A parte alcune recenti vicissitudini il campionato italiano è sicuramente tra i principali tornei al mondo per livello qualitativo. Lo spettacolo è generalmente di alto livello e per questo le squadre si contendono i migliori giocatori del mondo. Perché non replicare nell’innovazione un modello sportivo?
Se è così allora in tutti i settori, dalla ricerca, alla finanza, all’impresa, dobbiamo avere i migliori giocatori, a cominciare dai nostri. E se parliamo di innovazione l’attore chiave è l’impresa in grado di trasformare idee e progetti in prodotti, servizi, passando per nuovi modelli di business, nuove forme di organizzazione delle attività produttive.
Abbiamo bisogno anche di nuovi giocatori, di nuove imprese e nuovi imprenditori focalizzati su nuovi settori e nuove tecnologie. Una nuova generazione di imprenditori non semplicemente continuatori di business di famiglia, ma dotati di visione futura e di voglia di giocare su campi nuovi. Capaci di vedere ricerca e innovazione legate tra di loro e di collaborare con Università e centri di ricerca di tutto il mondo.
Questi imprenditori ci sono già ma sono troppo pochi per cambiare il modello di specializzazione. Nei prossimi interventi cominceremo a conoscerne qualcuno.

MORENO MUFFATTO – email:moreno.muffatto@gmail.com


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