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Published on Luglio 26th, 2005 | by Redazione MG News

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Economia del nord est: crisi e metaformosi di un sistema

Interpretare correttamente i trend evolutivi di un territorio come quello del Nord Est sta diventando un esercizio sempre più complesso ed articolato. Come ogni anno ci ha provato la Interpretare correttamente i trend evolutivi di un territorio come quello del Nord Est sta diventando un esercizio sempre più complesso ed articolato. Come ogni anno ci ha provato la Fondazione Nord Est con il suo 6° rapporto sulla società e l’economia (Nord Est 2005, Venezia, Marsilio).
La caratteristica di fondo che appare analizzando i dati disponibili è che questa area, per molti anni additata come motore dell’economia italiana, sta attraversando una fase di metaformorfosi (ovvero di trasformazione). Non è infatti possibile un’interpretazione lineare, visto che i dati disponibili sono spesso contradditori tra di loro (almeno apparentemente) e che, elemento ancora più rilevante, le percezioni della popolazione ed anche degli imprenditori spesso disegnano scenari che alterano la realtà fattuale.
Un primo elemento di valutazione riguarda la popolazione: se, da un lato, è vero che la società del Nord Est sta invecchiando, dall’altro è in aumento il tasso di natalità di questa area (1,3 figli per donna, ai livelli più alti in Italia). Questo fenomeno è in buona parte dovuto alla maggiore prolificità degli extracomunitari la cui presenza ha ormai raggiunto livelli quasi europei; in questo senso dovremmo salutare positivamente questo flusso migratorio che viene a risolverci i problemi di bassa natalità e di carenza di manodopera. D’ altro canto, però, la crescente presenza di popolazione straniera e la sua molteplice provenienza geografica (culturale, religiosa) non potrà non porre anche una questione di tolleranza, più ancora che di integrazione.
Restando al mercato del lavoro, recentemente sottoposto a vari scossoni che hanno anche avuto rilevanti impatti mediatici (vedi i casi De Longhi, Zoppas, Fiamm, ecc), i dati indicano che la disoccupazione complessiva è aumentata in modo marginale (dal 3,8 al 4,1%); che il ricorso alla cassa integrazione ordinaria è sostanzialmente stabile negli ultimi due anni; che a fronte di settori in calo nell’assorbimento della MO come il manifatturiero, ve ne sono altri (come il terziario avanzato ed i servizi alla persona) che presentano trend positivi.
Ma il tema di fondo sul quale focalizzare le analisi è quello della competitività delle imprese, strettamente collegato al fenomeno della internazionalizzazione e, quindi, della capacità di vendere le nostre merci sui mercati internazionali. A ciò è collegato, in buona misura, il potenziale di sviluppo della nostra economia.
Un dato sembra incontrovertibile: l’Italia ha perduto negli ultimi 8-10 anni oltre il 30% della sua quota nel commercio internazionale a fronte di paesi come Francia e Germania che l’hanno mantenuta sostanzialmente stabile. E la causa principale di questa caduta di competitività è da ricercarsi nell’ evoluzione della produttività del lavoro rimasta stagnante in Italia nel periodo in esame ed aumentata del 15% in Germania e del 25% in Francia. A sua volta la performance negativa della produttività è da collegarsi ad un costo del lavoro in Italia che è aumentato di oltre il 5% a fronte di una sostanziale stabilità in Germania e di addirittura un leggero calo in Francia.
Non è peraltro solo un problema di costi del lavoro, ma anche di un’inefficienza dei sistemi di trasporto e di un costo dell’energia più gravoso rispetto ai nostri paesi partner in Europa.
Ma la questione della competitività presenta un secondo “corno” che è quello della specializzazione produttiva; anche qui i dati dimostrano che in questi ultimi anni l’Italia si è rafforzata in quei settori a basso contenuto di tecnologia (come il tessile, il legno-arredo, ecc) che presentano i minori tassi di crescita a livello mondiale.
Questo richiama l’altra “vexata questio” della carenza negli investimenti in ricerca ed innovazione tecnologica in Italia e nel Nord Est in particolare; anche in questo caso peraltro il quadro si presenta a tinte diverse se è vero che, ad esempio , le aziende del Nord Est sono quelle che più hanno investito nell’adeguamento dei sistemi informativi (quasi 1 su 4 investe più del 2% del proprio fatturato in ICT, secondo gli studi di Tedis-VIU). E le imprese più virtuose sono quelle che hanno maggiormente spinto la loro produzione sui mercati internazionali; questo a dimostrazione che l’internazionalizzazione delle imprese è, da un lato, la strada obbligata per lo sviluppo e, dall’altro, un enorme stimolo al cambiamento dei modelli gestionali ed organizzativi e quindi all’innovazione di prodotto e di processo.
Proprio su questo fenomeno si incentrano equivoci, percezioni alterate da parte sia della popolazione in genere che degli imprenditori (o almeno di una parte di essi). Infatti, ormai circa il 40% della popolazione ritiene che l’internazionalizzazione sia un fenomeno solamente negativo; e dal loro canto quasi l’80% degli imprenditori ritiene che provochi effetti negativi sull’occupazione. Questa demonizzazione dell’internazionalizzazione dipende, da un lato, dal notevole eco sulla stampa e sui media in generale, di vicende – peraltro delicate e dolorose per i lavoratori coinvolti – di aziende che hanno ridimensionato la loro presenza produttiva nel Nord est e dall’altro dalla confusione terminologica e concettuale tra l’internazionalizzazione e la delocalizzazione. Mentre quest’ultima disegna il mero spostamento di alcune o tutte le fasi produttive di un impresa all’estero, l’altra è un fenomeno molto più articolato e complesso che riguarda il riposizionamento dell’azienda sui mercati internazionali finalizzato ad un loro miglior presidio in termini di produzione e vendita. In questo caso l’azienda apre sostanzialmente nuove unità produttive (e filiali commerciali) per meglio servire mercati esteri ad alto potenziale (es: Cina, Russia, Sud America, ecc).
Questo processo è da considerarsi, invece, virtuoso ai fini occupazionali: infatti non solo mantiene inalterata la forza produttiva locale, ma genera una domanda di profili professionali medio-alti chiamati a gestire il processo di internazionalizzazione (tecnici, commerciali, responsabili marketing, logistica, ecc).
Quindi, la sfida principale per l’economia del Nord Est si gioca proprio sul fronte dell’internazionalizzazione: da un lato, le aziende sono chiamate a proiettarsi sempre con maggior decisione sui mercati internazionali, scegliendo strategie di prodotto coerenti con lo sviluppo della domanda mondiale; dall’altro associazioni, enti ed istituzioni sono chiamati ad un grande sforzo per accompagnare queste imprese nel loro tragitto offrendo loro agevolazioni e servizi finanziari, di marketing, logistici, ecc. E’ la strada obbligata per assicurare un futuro di prosperità al nostro territorio.


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