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Published on Marzo 14th, 2005 | by Redazione MG News

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Come evitare la delocalizzazione? Intervenga il territorio!

Alcune riflessioni a partire dal caso Siemens in Germania La notizia è di quelle destinate a far discutere a lungo; non solo ma potrebbe anche rappresentare il primo ed importante esempio di una soluzione “indolore”, concertata tra le parti sociali, per limitare i fenomeni delocalizzativi, soprattutto quando questi comportano pesanti riflessi occupazionali. Dunque, la notizia: alla Siemens in Germania, l’azienda ha trovato un accordo con il sindacato dei metalmeccanici locale Ig Metall, per prolungare la settimana lavorativa in due stabilimenti da 35 a 40 ore, per ottenere un aumento di produttività tale da scongiurare il trasferimento di una parte importante di produzione in Ungheria. Questo accordo permette di salvare circa 2.000 posti di lavoro che sarebbero stati a grave rischio. A questo punto, l’ interrogativo che naturalmente sorge alla mente è “potrebbe un simile accordo essere applicato anche in Italia per salvare situazioni simili?” Una importante premessa prima di tentare di dare una risposta a questo quesito; in Germania la politica sociale concertativiva ha una lunga storia; non solo, ma vi sono state importanti esempi di coinvolgimento di lavoratori nella gestione delle aziende (la c.d. co-gestione). In Italia una simile tradizione sulla co-gestione non esiste; esiste però, ed è innegabile, una nuova volontà, rappresentata recentemente sia dalla parte confindustriale e segnatamente dal nuovo presidente Montezemolo, che da parte sindacale, di aprire tavoli di confronto su tutte le tematiche economico-sociali calde. E innegabilmente la delocalizzazione è una di queste. Le aziende che delocalizzano hanno prioritariamente l’obiettivo di ridurre i costi e/o di aumentare la produttività (potremmo dire due facce della stessa medaglia); certamente se si studiassero forme di intervento sull’efficienza produttiva alternative alla misura radicale, le prime ad essere contente sarebbero le aziende stesse che si eviterebbero tutta una serie di problematiche collegate allo spostamento in massa di intere produzioni in paesi stranieri. Ma quali potrebbero essere queste “misure alternative”: una realmente importante ci è suggerita dal caso Siemens; un aumento dell’orario di lavoro per aumentare la produzione a parità di costi di manodopera. Ovviamente non sempre questo intervento può rivelarsi efficace: si pensi ad esempio ai casi in cui l’aumento delle ore lavorate non aumenta in maniera significativa la produttività, oppure ancora dove l’organizzazione del lavoro è tale da non consentire un utilizzo efficace del surplus di orario. Ma altre possono le misure che possono essere ipotizzate; facendo un esercizio di “gestione creativa”, si possono schiudere molteplici scenari. Ad esempio potrebbe esserci, magari per un periodo di tempo limitato, una riduzione di salari e stipendi per operai, impiegati e dirigenti; oppure ancora si potrebbe tentare, per trasformare dei costi fissi in variabili, di fare uno spin-off di una parte della produzione, creando delle società ad hoc in comproprietà con i lavoratori interessati al processo di terziarizzazione; o ancora si potrebbe avviare, sempre con il contributo e d’intesa con i lavoratori, un piano di differenziazione della produzione che consenta di sfruttare le linee esistenti per produrre nuovi modelli a maggior valore aggiunto che quindi possono essere collocati sul mercato ad un prezzo superiore. Sono solo alcune ipotesi, che non hanno nessuna pretesa di esaustività; quel che è certo è che è necessario partire con l’obiettivo comune da parte di aziende e sindacati, di mantenere i posti di lavoro, evitando i traumi susseguenti alla delocalizzazione, traumi che non possono non ripercuotersi anche sull’economia locale. Per questo motivo la “terza gamba” della politica concertativiva può essere rappresentata dalle amministrazioni locali che hanno certamente un forte interesse a che un’attività economica rimanga saldamente installata nel territorio. E il contributo che possono dare le amministrazioni locali non è marginale: basti pensare alla possibilità di cedere aree o stabili in via gratuita per l’avvio di nuove attività, oppure alla possibilità di contribuire alla riconversione professionale di lavoratori che debbano cambiare mansione tramite corsi di aggiornamento, oppure ancora ai contatti attivabili con realtà produttive del territorio per assorbire eventuali esuberi di manodopera; e così via. A questo punto si potrebbe lanciare un’idea: istituire nelle aree industriali, nei distretti in cui la delocalizzazione è in atto o sta per concretizzarsi (si pensi nel Veneto, ad esempio, al tessile-abbigliamento ma anche alla meccanica e altri settori) dei gruppi di lavoro, formati da rappresentanti degli imprenditori, dei sindacati e delle amministrazioni locali, che dopo aver analizzato i problemi gestionali delle aziende “a rischio” siano in grado di proporre delle soluzioni alternative che almeno riducano l’impatto negativo della delocalizzazione.


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